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Andy Roddick sul trofeo dello US Open nascosto in un angolo: “Quella fase della mia vita è finita”-

L’ultimo degli americani. C’è chi a fine carriera appende la racchetta al chiodo e chi invece preferisce buttare via i trofei. Andy Roddick ammette di essere liberato di alcune tracce della sua «vita precedente». Dopo di lui, nessuna racchetta statunitense è stata in grado di vincere uno Slam. Pressione, fama, fallimento, passione. Tutto per arrivare in cima. Poi però non restava che scendere. Ecco in che senso. “Nessuno ha tratto più beneficio da una vittoria. Mai. Se l’anno successivo avesse vinto un americano, tu non saresti qui” dice all’interlocutore di GQ Sports. Poco dopo aver vinto l’Open, Roddick raggiunge la posizione numero uno al mondo. Resta là per tredici settimane. Poi Federer, Nadal e Djokovic. Sapeva che non avrebbe mai riconquistato il primo posto in classifica né vinto un altro major, ma raramente ha parlato dei motivi legati alla sua decisione di ritirarsi giovane. È rimasto in silenzio per così tanto tempo che, sulla soglia del ventesimo anniversario di quella vittoria – era una domenica di settembre del 2003 –, è arrivato il momento di dare di nuovo la parola a lui e al suo allenatore dell’epoca Brad Gilbert (ora coach di Coco Gauff): “Brad era un allenatore che aveva visto tutto quello che stavo per sperimentare. Aveva visto Agassi, la macchina pubblicitaria, la personalità complicata. E la sicurezza con cui parlava di quello che sarebbe successo: non so se ci credesse, ma sembrava reale” racconta l’ex tennista. Sulla scia dell’entusiasmo di Gilbert, Roddick vince il torneo Queen’s Club, raggiunge le semifinali a Wimbledon (dove perde contro Federer mancando la strada giusta verso il primo titolo Slam) e vince quattro eventi sul cemento prima dello US Open. A New York Roddick continuato a brillare, perdendo un solo set prima delle semifinali. Ad aspettarlo lì l’argentino David Nalbandian, che l’americano aveva già battuto a inizio estate. Non è facile: Roddick perde i primi due set, poi salva un match point nel terzo set. “La folla diventò davvero rumorosa – ricorda –, ma siamo stati in grado di ribaltare le sorti della partita”. Dice «siamo», non «sono». Il tennis non è mai stato uno sport individuale per Roddick: si è sempre visto come parte di una squadra, quasi come un pilota di Formula 1. “In un certo senso è la stessa cosa, – dice – soltanto che il tennis non viene trattato allo stesso modo. Si pensi a una squadra nel box: non vedi le cose che si fanno dietro le quinte”. E ricorda il lavoro che il fisio dell’Atp Doug Spreen svolse su di lui quella notte: una serie di vesciche si era formata sulla pianta del piede destro di Roddick. In una camera d’albergo a Times Square, Spreen lavorava con il bisturi mentre Gilbert parlava della strategia per la finale. “Sia il trattamento di Spreen che le tattiche di Gilbert erano validi” afferma convincente. I suoi genitori non si sono mai seduti sugli spalti. Roddick ricorda: “Mia madre da qualche parte stava pensando: ‘Tutte quelle corse per allenarsi. Se non prima, deve valerne la pena adesso'”. Pete Sampras (americano) aveva annunciato il suo ritiro all’Open di quell’anno. Lo vinse Roddick. Il passaggio del testimone era avvenuto. Dopo la cerimonia di premiazione andò a festeggiare con la famiglia, gli amici e l’agente Ken Meyerson in un ristorante di Manhattan: “Nessuno sapeva se sarebbe successo di nuovo”. “Dopo cena abbiamo preso il trofeo e ne abbiamo bevuto” ricorda ancora. Poi, gli occhi su un preciso istante: “È arrivata dal nulla Jennifer Capriati, ero tipo così” dice mimando di consegnare il trofeo alla tre volte vincitrice Slam. “Lunedì la festa durò fino alle prime ore del mattino”; che non abbia dormito per non rischiare di svegliarsi da un sogno? Chi può dirlo. Lui no, ormai è acqua passata. E poi c’è Roger Federer, e quella finale a Wimbledon nel 2009. Quella rivalità che è diventata quasi un’ossessione. “Non è che arrivassi all’allenamento tutti i giorni dicendo ‘fanc… Roger’. Era diventato come il cielo: non sei sempre lì che lo guardi, ma sai che c’è“. Quella sconfitta 16-14 al quinto set è stata devastante, “è come se qualcuno avesse strappato il suo cuore quel giorno”, ha detto Doug Spreen, il suo fisio. “Mentre Andy era nella doccia, Roger mi si è seduto di fianco dicendo ‘mi dispiace, mi dispiace per Andy e per tutti voi’. Sapeva che non era il caso di fare grandi celebrazioni. Non era obbligato a farlo, ha mostato grande sensibilità in quell’occasione“. ...

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